Massimo Centini, laureato in Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino, ha lavorato con Università e Musei italiani e stranieri.
Ha insegnato Antropologia Culturale all'Istituto di design di Bolzano e collaborato, nella sezione "Arte etnografica", con il Museo di Scienze Naturali di Bergamo.
Docente di Antropologia culturale presso la Fondazione Università Popolare di Torino, insegna "Storia della criminologia" ai corsi organizzati dal Movimento Universitario Altoatesino - MUA - di Bolzano.


Autore di numerosi studi di Antropologia tra i quali ricordiamo "L'uomo selvatico" e "La Sindrome di Prometeo", ha scritto numerosi libri su Torino e sulla storia e la cultura del Piemonte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Via Bonelli 2 (già via dei Fornelletti), abitazione del boia della città di Torino a partire dal XVI secolo.

 

"La Folla", settimanale politico, fondato a Milano nel 1901 da Paolo Valera (1850-1926).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vincenzo Cibolla in uno schizzo del tempo durante il processo del 1861.

 

 

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La Còca del Balon e i Criminali d'Altri Tempi
di Massimo Centini

Cesare Bianchi è stato uno scrittore d’altri tempi, nel vero senso della parola: esponente di quella torinesità che gli dava modo di essere “signore dentro”, garbato e discreto, ma soprattutto depositario della storia e della tradizione più profonde di una città che, quando Bianchi scriveva, era al centro di un frenetico cambiamento.
In uno dei suoi libri più fortunati, Porta Palazzo e il Balon. Storia e mito (Torino 1975), l’autore dedicava alcune pagine alla malavita attiva nell’area di Porta Pila, traendo il proprio incipit da un’osservazione del suo tempo: “I delinquenti che al giorno d’oggi si sogliono designare come teppisti, rapinatori, scippatori e talvolta capelloni a scapito di un’innocente moda, nell’Ottocento a Torino assumevano il nome generico di barabba o da barabao, spauracchio, o dall’omonimo ladrone liberato da Pilato in cambio di Gesù, o forse da barabio cotela, orco o lupo mannaro".

I barabba si annidavano “a Porta Pila, al Balon, nella contrada del Gambero, cioè via Bertola, in via Conte Verde, via Stampatori, al Borg dal Fum e specialmente al Moschino, agglomerato di tuguri malsani e sordidi sorto spontaneamente nel 1700 in riva al Po, tra piazza Vittorio e corso S. Maurizio”.
La Siberia di fatto era quell’area di Torino che in passato era costituita da un ammasso di catapecchie maleodoranti e situata dalle parti dell’attuale piazza Solferino, nella zona compresa fra via Cernaia, via Bertolotti e corso Galileo Ferraris. Vi era fra l’altro il cosiddetto “prato del lattaio”, dove pascolavano puledre del cui latte si diceva un gran bene: pare che potesse guarire i malati di cuore e mantenere le donne giovani e belle. E vi era anche un rudere dove, in una nicchia, si conservava un antico diavolo, dipinto chissà da chi (qualcuno sosteneva che si fosse dipinto da solo): per tenerselo amico, gli abitanti della zona gli tributavano frequenti omaggi; e cercarono invano di salvarlo dall’oblio quando la Siberia fu rasa al suolo per consentire la costruzione di piazza Venezia, poi scomparsa anch’essa e sostituita dal Palazzo dei Telefoni.
L’altra zona malfamata era il Moschino: luogo così denominato in omaggio ai fastidiosi parassiti che vi abitavano, si trovava in odor di Po, fra corso San Maurizio e piazza Vittorio (oggi Borgo Vanchiglia): inaccessibile di notte perfino alla polizia, era un agglomerato di casupole oscene che offendevano “l’occhio, l’igiene, il decoro e il buon costume”. Soprattutto il buon costume: infatti, a fine mese, molti onesti cittadini si recavano colà a dilapidare il proprio stipendio in compagnia delle prostitute che albergavano da quelle parti. Anche a causa delle infezioni e delle malattie che vi attecchivano facilmente, il piccolo borgo maleodorante fu raso al suolo nel 1872; buona parte della sua umanità si trasferì a Porta Palazzo.


Nel passato, a Torino, una specie di Corte dei Miracoli nei cui confini non osava avventurarsi nessuno che avesse un qualche rapporto con la legge e con il buon senso era l’odierna via Bonelli, che si chiamò dapprima Contrada Pusterla e poi Contrada dei Fornelletti (per via dei fornelli dove si lavoravano a caldo i bozzoli dei bachi da seta). Qui si aggiravano liberamente manigoldi d’ogni fatta, prostitute, mendicanti, storpi veri e storpi finti, tutti riuniti in una vera e propria organizzazione con tanto di capi, regole e gerarchie. Secondo un tacito patto, i tutori dell’ordine non vi potevano entrare dopo una certa ora e i delinquenti vi godevano dunque di una sorta di impunità.
Una testimonianza senza dubbio ricca di pathos sui bassifondi torinesi proviene dal giornale “La Folla” dell’11 agosto 1901.
“Al 17 di via Porta Palatina è la famosa trattoria “Coppa d’Oro”, dove mangiano e bevono i gargagnan, gli uomini dalla faccia di bronzo che si lasciano mantenere dalle donne più abbiette del selciato. I gargagnan sono sovente delle furie, delle bestie umane che si sfogano sulla pelle delle donne che si frustano l’anima e il corpo per dar loro da mangiare. Ma perché queste disgraziate si sfiancano per nutrire dei bruti che rispondono alle loro gentilezze con dei pugni sodi? Forse perché sono i soli che abbiano il coraggio di farsi vedere, pubblicamente, come i loro protettori ufficiali.
Qualche volta nella trattoria della Coppa d’Oro nascono scene spaventose. Chi grida, chi bestemmia, chi minaccia, chi agita il bastone e chi rompe tutto, piatti, bottiglie, bicchieri. Sovente si incomincia a ceffoni e si finisce a colpi di scranna. Le slibrettate, le prostitute libere, non munite del libretto sanitario le prendono, tacciono, si lasciano percuotere senza pronunciare una parola e si riversano sull’uomo, che qualche minuto dopo baceranno e ribaceranno, come iene avide di piantare i denti nel collo del bullo inviperito.
Il padrone dell’osteria è un uomo a cui bastano cinque soldi, egli si tiene nell’angolo una sbarra di ferro che gli serve per rompere la testa agli ostinati che non vogliono adattarsi all’abitudine generale di pagare il conto o gli attaccabrighe che fanno gli smargiassi a ogni golata di vino.
La via Conte Verde è il nido dei Flamba (postriboli) con le donne che si vendono per una lira come le passeggiatrici di via Porta Palatina, Bertola, Stampatori. Vi sono tre di queste case tollerate che rappresentano la vergogna sociale e tutte tre sono popolate dai barabba e dagli spostati del basso ceto”.
L’etimologia di còca è incerta, si ipotizza che derivi da cocca, a sua volta una distorsione del termine italiano cosca. La malavita torinese delle còche, era più vicina a certa delinquenza parigina che alla camorra o alla mafia e celebrate da molti feuilleton dell’epoca. Nel dialetto torinese còca indica una banda di giovani teppisti, che poi ha visto ampliare il proprio spazio semantico, mantenendo comunque sempre una stretta connessione con la dimensione della criminalità, piccola e media. Il vocabolo fece la sua comparsa per la prima volta nei documenti di polizia nel 1838 e indicava un’associazione di giovani dediti ad azioni illegali e chiamata Còca del Gambero. Abbiamo notizia della Còca di Po (1840), della Còca di Santa Barbara (1846),della Còca del Balon (1841) e della Còca del Moschino (1845). I loro membri, ladri o assassini che fossero, comunemente chiamati barabba, anche se, come detto, frequentavano volentieri la zona del Balon e la Contrada del Gambero, in nessun luogo si trovavano a proprio agio come nelle già citate aree della Siberia e del Moschino.

La còca del Moschino era dominata dal famigerato Cit ‘d Vanchija, che infiammò la fantasia di narratori e gazzettieri; questo singolare personaggio, come altri specialisti della rapina e del crimine covei (Carlo Penassio, il Nino del Moschin, alias Giovanni Fiori, Suardi ‘l Carbonè, Carlo Rivolta, Carlo Lecchio, Napoleone Bausar, Giovanni Rossi, Sisto Carbonaro, Grato e Cipriano Pascal) diede vita ad una còca tra le più pericolose della città. Neanche il Petrosino locale, Domenico Cappa, fu in grado di assicurare alla giustizia quel gruppo di pericolosi delinquenti. Il Cit e la sua còca riuscirono sempre a farla franca, alimentando il loro mito.
Quella del Balon si aggregò intorno a Luigi Gervasio, un bandito che si circondò di una serie di professionisti del crimine della sua fatta, con i quali riuscì a portare a segno numerosi furti, rapine e delitti senza che, per alcuni anni, le forze dell’ordine potessero agguantarlo. Gli fu certamente d’aiuto la topografia della corte dei miracoli in cui trovava rifugio. Gervasio e i complici furono arrestati nel 1861, grazie a un delatore: furono riconosciuti colpevoli di omicidio a scopo di furto e condannati tutti all’impiccagione. Solo uno dei membri si prese l’ergastolo, era un certo Cibolla, forse il delatore era proprio lui?
Va detto che erano chiamate còche quelle aggregazioni spontanee di giovani: non bande vere e proprie, ma piuttosto gruppi di ragazzi del popolo (artigiani, operai) accomunati dal borgo di appartenenza, che diventava una sorta di tessuto connettivo atto a identificarli e fornirgli una matrice identitaria. Alcune, come detto, assumeranno connotazioni tali da renderle simili a vere e proprie associazioni a delinquere.
Intanto a Porta Palazzo pare fosse attiva una scuola per borsaioli: qui la realtà si confonde con la fantasia, perché le poche memorie disponibili ci restituiscono un’immagine più affine a certa narrativa che alla cronaca giudiziaria.
La polizia sapeva che se fosse riuscita a infiltrare qualche informatore nella “Trattoria Garibaldi” in vicolo Croce d’Oro, o nell’“Osteria della Ricciolina” in via Porta Palatina avrebbe avuto modo di raccogliere notizie utilissime: infatti in quei locali i malavitosi erano soliti riunirsi per organizzare i loro colpi.
Alla “Garibaldi” e alla “Ricciolina” si poteva incontrare Gianin ‘l cit dla Tor, al secolo Ernesto Berra, ben noto ai tutori dell’ordine, ma che riusciva sempre a farla franca; dopo una serie infinita di furti venne finalmente arrestato e condannato a trent’anni di prigione. Dopo averne scontati ventiquattro, fuggì ma fu ripreso qualche tempo dopo a Torino dove, sotto falso nome, aveva messo la testa a partito e si era messo a lavorare onestamente! La sua storia – che il Berra trascrisse in forma autobiografica in un libro che meriterebbe di essere ripubblicato – fece molto scalpore al punto che il re lo graziò. Ritornato uomo libero concluse anonimamente la sua esistenza scaricando cassette di frutta e verdura al mercato di Porta Palazzo.

 

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